La cultura, oggi, non è più un blocco compatto. È un puzzle senza cornice, un insieme di tessere che non sempre si incastrano, ma che convivono, si accavallano, a volte si ignorano. La cultura è frammentata. Frammentata come il feed personalizzato dei social, che ci mostrano mondi paralleli di cui potremmo non sospettare mai l’esistenza. Frammentata come i linguaggi che si moltiplicano nei sottotitoli automatici, nelle emoji, nei meme, nei dialetti digitali. Frammentata come le identità che oggi portiamo addosso, spesso più di una alla volta, e che si attivano in base al contesto: online, offline, tra amici, in una community ristretta o su un palco virale.
In questa frammentazione, nascono gruppi che non rispondono più a un’unica narrazione dominante. Si muovono fuori dalle cornici istituzionali, fuori dagli schemi del “mainstream” – che oggi, forse, neanche esiste più. Sono gruppi che si aggregano attorno a passioni ossessive, estetiche specifiche, credenze condivise, linguaggi in codice. Alcuni nascono per gioco, altri come rifugio, altri ancora come forma di resistenza. Ma tutti, in un modo o nell’altro, creano comunità intenzionali, dove il senso di appartenenza è profondo e auto-costruito.
Queste comunità non chiedono il permesso. Non aspettano di essere legittimate dall’alto. Si fanno spazio nel rumore della rete, spesso senza un vero leader, ma con simboli riconoscibili, rituali condivisi, e una logica interna che, per chi resta fuori, può sembrare assurda o incomprensibile. Benvenuti nel mondo delle sottoculture digitali. C’è chi le ha date per morte, archiviate nel passato punk, goth, grunge, emo. Ma la verità è che non sono mai scomparse. Hanno solo cambiato habitat. Oggi le sottoculture non si trovano solo nei centri sociali o nei negozi di dischi, ma anche nei canali YouTube da 500 follower, nei reel che si fanno solo per “i soliti noti”, nei forum su Discord, nei commenti sotto video che nessun algoritmo consiglierà mai. Sono meno visibili, più stratificate, ma ancora vive. E soprattutto, sono ovunque.
In questo scenario si inserisce online una figura come Gianfranco Sardinaschi. Un nome che a molti non dirà nulla, ma che, per una certa bolla digitale, è diventato un culto. Un riferimento. Una specie di mitologia contemporanea: è reale, è un personaggio, è una performance collettiva? Più che rispondere a queste domande, vale la pena chiedersi perché esista un “fenomeno Sardinaschi”. Cosa ci dice sul nostro modo di abitare internet, di costruire appartenenza, di giocare con l’identità? E soprattutto: cosa dice delle sottoculture contemporanee, che oggi si fanno piccole, autoironiche, protette. Ma anche potenti, affettuose, e radicali nei loro codici. Questa è la storia di una frattura. Ma anche di una comunità. E di un ring light acceso su ciò che, a prima vista, sembra solo un meme.

E allora, chi è davvero Gianfranco Sardinaschi? Un filosofo mimetizzato da meme? Un consulente che lavora meglio su TikTok che in un polveroso ufficio comunale? Un formatore che preferisce LinkedIn alle scuole di scrittura creativa? Forse la cosa più onesta da dire è che Sardinaschi è una sottocultura in sé. Lo è nel modo in cui si racconta – ironico, spiazzante, obliquo. Lo è nel modo in cui costruisce relazioni: più affini a una fanbase che a un pubblico, più simili a un circolo intellettuale punk che a un funnel da newsletter. E lo è soprattutto nel suo progetto editoriale: Ring Light.
Si tratta di una newsletter brillante (in tutti i sensi) che unisce filosofia pop, analisi culturale, scampoli di vita e link improbabili, il tutto sotto una luce che non è mai neutra. Perché Ring Light non illumina: esagera, deforma, satura. Mette a fuoco e intrattiene. È l’opposto della comunicazione culturale patinata. Dentro ci trovi citazioni alte e basse, pillole di trend forecasting e intuizioni sul contemporaneo che spuntano tra un emoji e un meme. Il tono? Sempre un po’ laterale, sempre un po’ oltre. Una specie di stand-up filosofico, ma su Substack.
Non è solo branding personale: è comunità in atto, dove la cultura si tocca, si discute, si ridicolizza e si celebra nello stesso piatto. E poi c’è il lato da booktoker stanco ma brillante, che nel pieno dell’era del de-influencing riesce a diventare un punto di riferimento per chi cerca divulgazione col cervello acceso e il cuore sghembo. In pochi mesi: milioni di visualizzazioni, collaborazioni con case editrici di peso e varie realtà culturali e professionali. E una quantità indefinita di tempo dedicata a progettare app e siti che non lancerà mai. Sardinaschi non è solo un creator, né un filosofo, né un ironista culturale. È un caso vivo di come una sottocultura possa nascere da un linguaggio, da un tono, da una modalità relazionale che rifiuta l’algoritmo e cerca il contatto umano. Un ring light acceso non per brillare, ma per far vedere meglio il rumore e i pattern del mondo.
Se Sardinaschi oggi accende il suo Ring Light per illuminare le contraddizioni e le crepe della comunicazione culturale, prima di lui altri hanno usato lo stesso spirito sovversivo e laterale per confondere, provocare e costruire nuovi miti digitali. Uno dei più significativi – e ancora troppo poco raccontati – è il caso di Petal Veil, il luxury brand inesistente creato da Andrea Natella (all’epoca con l’agenzia K-events, Fimmaster Group), già fondatore del Luther Blissett Project e maestro assoluto di comunicazione fittizia a fini culturali. Era il lontano 2007. Petal Veil nasceva come un brand tutto seta e cromoterapia, ma non esisteva. Le immagini c’erano – raffinate, oniriche, perfette per un editoriale di Dazed – ma i prodotti no. Tutto è credibile, tutto è costruito per esserlo. Il risultato? Una trappola semiotica. Una specie di test di Turing estetico in cui chi crede a Petal Veil non è “caduto nel tranello”, ma ha semplicemente espresso la fame di immaginari possibili. Un bisogno di credere che ci sia ancora qualcosa di bello, fuori dallo schema – anche se falso.
Petal Veil non è mai esistito; era un personaggio finzionale ideato da LINES per ascoltare le proprie consumatrici. Eppure, ci hanno creduto in tantissimi. Migliaia di ragazze si sono messe in fila per partecipare ai casting, convinte di poter accedere a un mondo fatto di armonia, glutei scolpiti e illuminazioni interiori. Alcune attirate dalla promessa di un film (“in pre-produzione”), altre semplicemente affascinate dall’estetica del brand, da quel linguaggio sospeso tra luxury e new age, che sembrava davvero dire qualcosa. I media non hanno saputo resistere: quotidiani, magazine, blog hanno dedicato interviste, editoriali, approfondimenti a Petal Veil, azzardando paragoni con filosofi e leader politici, senza accorgersi che dietro tutto questo non c’era una maison, ma un’operazione di guerrilla culturale. Una presa per i fondelli? Sì. Ma, a pensarci bene, non lo sono anche gli spot che ci parlano di dentifrici approvati da “associazioni internazionali dei dentisti” mai esistite, di biscotti “senza niente” che ti promettono felicità, o di shampoo con “particelle intelligenti”? Se possiamo credere alle pubblicità con i delfini curiosi, possiamo credere anche a Petal Veil. Anzi, forse Petal Veil funziona meglio: almeno non finge di essere vero, ma ci mostra con stile quanto sia fragile il confine tra finzione e branding, tra narrazione e realtà commerciale.

Ed è qui che il parallelo con Sardinaschi diventa illuminante. Dove Petal Veil gioca con l’estetica dell’alta moda e l’immaginario benessere, Sardinaschi smonta la comunicazione culturale mainstream e i suoi cliché: la divulgazione noiosa, l’intellettuale in posa, l’autenticità tutta filtri e font serif. Entrambi lavorano sulla stessa leva: credere che qualcosa abbia senso anche quando è assurdo. Entrambi usano la forma della comunicazione per sabotarne i meccanismi. E soprattutto: entrambi costruiscono micro-universi narrativi dove chi entra sa che si sta giocando, ma sceglie comunque di restare. Il pubblico di Petal Veil e quello di Ring Light non sono così diversi: cercano senso, estetica, ironia, ma anche spazi per credere collettivamente in qualcosa che non sia solo consumo passivo. E forse è proprio questa la forza di queste nuove forme di sottocultura: sono partecipative, post-ironiche, affettive. Fanno community, anche quando prendono in giro la community stessa.
In un ecosistema culturale dove ogni contenuto deve immediatamente performare, monetizzare o costruire posizionamento, operazioni come quelle di Luca Cesaro, dietro a Gianfranco Sardinaschi, o Andrea Natella introducono una forma inedita di resistenza simbolica: l’uso intenzionale della finzione e dell’ambiguità per sottrarsi al ciclo produttivo dell’attenzione. Queste esperienze condividono una grammatica comune: sono progetti narrativi, estetici e relazionali che simulano i linguaggi del potere culturale – l’editoria, il branding, l’influencing – per mostrarne la natura costruttiva, arbitraria e spesso autoriflessiva. Il valore, in questo caso, non è dato dalla “verità” dell’operazione, ma dalla sua capacità di attivare un pensiero critico collettivo. Nel momento in cui una community comincia a dubitare, ridere, farsi domande, l’esperimento ha già funzionato.
Nel caso di Ring Light, Sardinaschi utilizza il format classico della newsletter come spazio semi-intimo per innescare una relazione disallineata rispetto ai codici della comunicazione culturale istituzionale. Natella, con Petal Veil e tanti altri suoi progetti sociali, esaspera i codici della moda e del benessere spirituale fino a renderli caricatura, costringendo il pubblico a interrogarsi sulla propria disponibilità a credere, a desiderare, a condividere. O pensiamo anche a un terzo caso, quello di Amalia Ulman, che con il progetto Excellences & Perfections del 2014, ha spinto ancora oltre il concetto di storytelling identitario: fingendosi un’influencer wellness su Instagram per mesi, ha dimostrato come anche la soggettività più personale sia in realtà uno script interiorizzato e performato, codificato attraverso estetiche e algoritmi. In tutti e tre i casi, l’efficacia del gesto artistico o culturale non risiede nella sua chiarezza, ma nella sua ambivalenza.
Sono pratiche che occupano il tempo del pubblico senza condurlo da nessuna parte apparente – e proprio in questo non-approdo, in questo scarto rispetto alla logica della produttività culturale, si cela la loro utilità. Non sono “perdite di tempo”, ma momenti di sospensione del senso, in cui si apre lo spazio per una riflessione autentica su cosa significhi appartenere, credere, partecipare, oggi. Questa estetica della deviazione – che rifiuta di posizionarsi pienamente come arte, attivismo o intrattenimento – rivendica un’altra temporalità, in cui si può pensare senza dover per forza capitalizzare il pensiero.
Ed è forse questa, oggi, una delle forme più lucide di libertà.