Oasis Mania: 8 lezioni di marketing dai fratelli Gallagher

Per alcuni sono la più grande band di sempre, per altri solo una brutta copia dei Beatles. I numeri, però, parlano chiaro: gli Oasis rappresentano un fenomeno culturale intergenerazionale che ha plasmato l’immaginario britannico (e non solo) dagli anni Novanta a oggi – e il successo clamoroso del loro ritorno sui palchi dopo ben 16 anni, avvenuto a Cardiff lo scorso 4 luglio, è solo l’ultima prova.

Ma non si tratta soltanto di musica, perché gli Oasis sono molto di più di una band: sono un brand che da più di trent’anni macina milioni di sterline e alimenta una community fedele e trasversale. Quali sono i segreti che stanno alla base di questo trionfo?  E, soprattutto, cosa hanno i fratelli Gallagher da insegnare a chi costruisce un brand oggi?

Prima di cantare (e vendere), bisogna saper ascoltare

Regno Unito, primi anni Novanta. Il muro di Berlino è caduto e la Guerra Fredda è ormai un lontano ricordo. La Fine della Storia preconizzata da Francis Fukuyama sembra avverarsi: c’è la sensazione che alle porte ci sia per tutti una stagione di libertà e benessere. Internamente, dopo un ventennio di tensioni sociali (ve la ricordate la Thatcher, vero?) e di grigiore culturale, una nuova generazione di inglesi brama un riscatto che le condizioni socio-economiche sembrano permettere. Il futuro è radioso e si sente il bisogno di coesione. La risposta, politica, a questi mutamenti arriverà da Tony Blair con la sua promessa di iniziare un nuovo percorso, la terza via, equidistante da neoliberalismo e socialismo. Ma quella musicale?

Le classifiche sono dominate dalla musica dance e dall’euforia sintetica dei rave. Intanto, dall’altra parte dell’Atlantico, arriva il cupo e autodistruttivo grunge di Seattle, che mal si adatta alla luminosità che il futuro sembra riservare. Insomma, alla working class manca una colonna sonora, che sia autentica, leggera e, soprattutto, orgogliosamente inglese. Nei sobborghi di Manchester due fratelli alle prime armi con la musica fiutano l’aria, mettono insieme una band e trovano l’equazione perfetta: saccheggiare il catalogo dei Beatles per riff e giri di chitarra, aggiungere testi semplici e diretti, “pop” nell’accezione più pura del termine, e suonare tutto in una tonalità che le persone possano cantare a squarciagola sia mentre guidano la propria auto sia in uno stadio insieme ad altre duecentomila persone. L’11 aprile 1994, una settimana dopo la morte di Kurt Cobain, esce Supersonic, il primo singolo della band: il riff potente e sporco, il testo volutamente leggero, quanto più possibile lontano dall’intellettualismo, e l’accento di Manchester mai nascosto portano il brano alla cima delle classifiche. A pochi mesi di distanza, il 29 agosto, esce Definitely Maybe: sarà l’album di debutto più venduto nella storia del Regno Unito. È impossibile spiegare questo successo senza citare il Britpop, l’etichetta sotto cui si fanno confluire in un unico movimento i gruppi pop rock apparsi in Inghilterra a inizio anni Novanta. Questo fenomeno musicale sarà la colonna vertebrale di un più ampio indirizzo culturale che prende il nome di Cool Britannia: in un’euforia di vitalità il Regno Unito si presentava – e soprattutto si percepiva – come nuovamente giovane, creativo e ottimista (il nome nasce non a caso da un gioco di parole sul vecchio canto patriottico “Rule Britannia”).

Distinguersi dalla massa: il tono di voce

Come ogni etichetta, anche Britpop vuol dire tutto e niente. In questo insieme eterogeneo di band, gli Oasis si sono fin da subito posizionati in modo molto chiaro: i fratelli Gallagher celebravano la rinnovata leggerezza britannica, ma lo facevano in un’ottica di rivendicazione sociale. La positività che trasuda dalle loro canzoni non è una celebrazione di ciò che avevano intorno, ma di ciò che avrebbero voluto: è la working class che canta il mondo semplice, imperfetto ma non per questo meno affascinante e orgoglioso, della working class stessa, per la working class stessa. Il seme del successo di questa band sta tutto qui, e non nel contributo (da un punto di vista tecnico, diciamocelo, piuttosto irrilevante) che hanno saputo dare al panorama musicale di quegli anni. Se è vero che questo è il perno della narrazione che gli Oasis hanno fatto di sé, bisogna anche dire che non si tratta di una strategia di marketing, ma del pilastro della loro identità: rugoso, verace e viscerale.

Da questo assunto, discendono poi tutti i corollari che hanno segnato l’immaginario legato alla band. Partiamo da quello più immediato: il lato estetico. Se pensate agli Oasis è probabile che nella vostra mente compaiano un paio di scarpe Adidas sgualciate, un parka largo e un cappello da pescatore. Questa è l’uniforme di chi abitava i sobborghi di Manchester, uno stile di strada, ruvido ma immediatamente riconoscibile. E non ha niente a che fare con l’abbigliamento: è a tutti gli effetti un marchio di fabbrica, il messaggio visivo che dichiara che non c’è nessun copione; è la working class che indossa la propria divisa come uno scudo e la rivendica in modo identitario contro il rock glam e patinato. Il secondo corollario, certamente primo per importanza, è l’attitudine. I fratelli Gallagher sono dei ribelli, ma non dei ribelli tristi e autodistruttivi come Kurt Cobain o Sid Vicious. Sono dei ribelli cattivi, sempre sopra le righe, senza filtri e sfacciatamente arroganti. Abbiamo già fatto le medie, non è il caso che vi spieghi quanto fascino i bulli siano in grado di esercitare. L’attitudine dei fratelli Gallagher è la stessa degli hooligans: non è quindi un caso che la loro storia sia legata a doppio filo a quella della squadra (almeno allora) sfavorita e operaia di Manchester, il City, e che le loro canzoni siano state usate come cori da stadio da moltissime altre tifoserie.

La coerenza prima di tutto

Torniamo un momento alla storia. Dopo il successo del primo album, gli Oasis pubblicano nell’ottobre del 1995 (What’s the Story) Morning Glory?, il loro secondo disco, acclamato all’unanimità come il più riuscito della band. Nell’agosto 1996 tengono a Knebworth due concerti passati alla storia: 2,5 milioni di cittadini britannici – il 4% della popolazione – si mise in coda per i biglietti. È ancora oggi un record. Ma soffermiamoci sulle implicazioni che un successo di questa grandezza comporta. A questo punto Liam e Noel Gallagher non sono più dei ragazzi che cantano in un pub le loro aspirazioni di diventare delle rock ‘n’ roll star, sono i leader della band più famosa del pianeta. Sappiamo bene che in questi casi scordarsi le proprie origini o diventare più pop e darsi “una ripulita” sono cose che succedono.

Gli Oasis, per scelta o per indole, non sono mai cascati in questo tranello. Anche quando sono diventati multimilionari, quando la loro faccia era su tutte le copertine dei tabloid e il loro nome in tutti gli stadi, non hanno mai messo da parte il loro accento, la loro arroganza e il loro modo di vestire: in una parola, la loro attitudine. Sono rimasti coerenti con se stessi e con l’immagine di sé che ha creato una fanbase irriducibile, che li ha seguiti fino a oggi e che ha tramandato il loro mito ai propri figli – ma su questo ci ritorneremo.

La lezione per i brand? La coerenza è il valore più importante. Non per ragioni etiche (sia mai), ma pragmatiche: se gli Oasis si fossero presentati sul palco di Knebworth vestiti di tutto punto, con le chitarre pulite e un perfetto accento londinese, la loro fama sarebbe morta quel giorno. Avrebbero tradito la “promessa” fatta a tutte le persone che avevano scelto di impiegare il proprio tempo ascoltandoli. E, soprattutto, sarebbero finiti velocemente nel dimenticatoio. Se vi sembra che stiamo ancora parlando di musica, vi faccio un esempio più canonico, sempre restando nel Regno Unito: il chiacchieratissimo rebranding di Jaguar. Anche per chi non capisce nulla di macchine, Jaguar è sinonimo di eleganza british, sportività e lusso. Questi valori sono impressi nella mente collettiva di chi compra – o sogna di comprare – una Jaguar. Ci vogliono anni e continue promesse mantenute per creare un’identità così forte, ma allo stesso tempo basta un colpo di spugna a cancellarla. Ed è esattamente ciò che è successo a questo brand. Quando lo scorso anno ha presentato il nuovo marchio, minimal e privo del leggendario giaguaro, e una nuova identità elettrica fatta per inseguire i trend globali, ha smarrito le proprie radici. E anche il proprio pubblico, con le vendite scese del 97% nei primi mesi del 2025.

La polarizzazione: piacere a tutti è controproducente

Il caso di Jaguar è emblematico: nel tentativo di piacere a tutti, hanno finito per non piacere a nessuno. Al contrario, gli Oasis hanno da subito assunto una posizione ben definita, anche a costo di farsi dei nemici. Buona parte del successo della band si deve, infatti, alla cosiddetta “battle of Britpop” tra i due gruppi più rappresentativi di questo movimento: Oasis e Blur. Anche in questo caso in ballo c’era molto più di musica e classifiche. La battaglia si è giocata sul piano culturale e sociale: nord contro sud, i rozzi e proletari fratelli di Manchester contro gli intellettuali e “middle-class bastards” di Londra. Il risultato? Le persone si sono schierate. Se tifavi Oasis, non potevi ascoltare i Blur. Se amavi i Blur, odiavi i Gallagher. E questa divisione, invece di limitare la loro fanbase, l’ha cementata. Ha trasformato un gruppo in una bandiera. Se vedete, di nuovo, delle assonanze con il mondo calcistico, avete capito bene.

Ma la polarizzazione non si è fermata lì. Negli anni, quando i nemici esterni sono spariti, la faida si è trasferita in casa: Liam contro Noel, fratello contro fratello. Una rottura continua, rumorosa, a volte anche ridicola – ma sempre funzionale. Perché le persone hanno continuato a discutere e a prendere posizione. Insomma, un nemico spesso fa comodo – che sia concreto, come Apple contro Microsoft o Coca-Cola contro Pepsi, o concettuale, come Patagonia che da anni trasforma la crisi climatica nel suo avversario più grande. E se ancora oggi si litiga per decidere chi sia “il vero Oasis” tra i due Gallagher, è solo la conferma di una regola che molti brand fingono di dimenticare: se vuoi essere amato davvero, devi essere disposto a essere odiato da qualcuno.

A volte la migliore campagna è nessuna campagna

L’ultimo atto della rivalità tra Liam e Noel Gallagher si è consumato la scorsa estate, quando i due fratelli hanno annunciato che avrebbero riunito gli Oasis per una serie di concerti. Dal punto di vista economico questa si appresta a diventare la reunion più profittevole della storia: si parla, per le sole date inglesi, di un giro d’affari complessivo di oltre 1 miliardo di sterline. Ma facciamo un passo indietro.

L’ultima volta che gli Oasis avevano suonato insieme era il 2009: a Parigi Liam, al culmine dell’ennesima lite, tira un tamburello in testa al fratello. Noel non sale sul palco e decreta lo scioglimento della band. Da allora i due hanno intrapreso delle carriere solistiche mediamente di successo, ma sempre trainate dai vecchi successi targati Oasis. Ora, la domanda che dobbiamo farci è questa: come si riprende in mano un progetto che la maggior parte delle persone dava per finito? Ma soprattutto, come lo si comunica? Sono passati ben 16 anni dall’ultima volta che i Gallagher hanno messo piede sullo stesso palco, e 17 dall’ultimo album uscito. Sarebbe stato ragionevole aspettarsi una grande campagna di marketing, magari fatta di installazioni locali e teaser per riportare l’attenzione sul tema, oppure un nuovo disco. Gli Oasis, invece, ci hanno di nuovo stupiti.

In modo molto coerente con la loro identità, non hanno fatto nessuna campagna promozionale. Hanno semplicemente lanciato sui propri canali social un messaggio neanche tanto criptico sul loro ritorno e poi hanno messo in vendita i biglietti. Fine della storia. Questo approccio da un lato rispecchia il loro pragmatismo, dall’altro si basa sulla consapevolezza della fanbase del gruppo. Il messaggio secco ha solo fatto da innesco: i Gallagher hanno lasciato che fossero le persone – i vecchi fan, quelli nuovi, la stampa – a riempire i vuoti e rilanciare la loro leggenda.

La leva della scarsità

La decisione di non fare nessuna campagna per promuovere il tour di reunion è stata amplificata da un dettaglio fondamentale: la scarsità. Solo 17 date europee, tutte tra Regno Unito e Irlanda. I biglietti disponibili? “Appena” 1,4 milioni. Le richieste? Oltre 10 milioni. Il risultato è stato una caccia selvaggia al biglietto: ore di code virtuali, siti bloccati e prezzi schizzati alle stelle a causa del dynamic pricing.

La lotta dei fan per accaparrarsi un biglietto ha così riempito il buco comunicativo volutamente lasciato dalla comunicazione asciutta dei Gallagher: la stampa non ha parlato d’altro e i fan stessi hanno generato migliaia di contenuti (spesso polemici) sul fatto di essere riusciti o meno ad aggiudicarsi un giro sulla giostra. In pratica, la scarsità ha trasformato un concerto in un bene esclusivo. E la notiziabilità? Impareggiabile: più diventava complicato comprare un biglietto, più la storia cresceva di valore. La lezione è chiara: quando il prodotto è davvero desiderato, renderlo difficile da ottenere può valere più di qualunque campagna patinata. E, ancora una volta, gli Oasis l’hanno fatto senza cambiare una virgola del loro stile.

Quando un brand diventa di famiglia

Ci sono brand che diventano così legati a un periodo della nostra vita che smettiamo di considerarli come prodotti: quegli oggetti diventano semplicemente parte della nostra memoria familiare. Se pensiamo a marchi come Plasmon o Lego, le prime associazioni mentali che facciamo difficilmente hanno a che fare con un’azienda: piuttosto, ci riportano a qualche momento felice dell’infanzia.

E quando questo succede, quelle marche smettono di essere solo “cose da comprare” e diventano qualcosa da trasmettere, di genitore in figlio. Con gli Oasis è andata allo stesso modo. Ai concerti di questi giorni non c’è solo lo zoccolo duro dei fan nostalgici di rivivere gli anni Novanta, ma ci sono soprattutto migliaia di ragazzi e ragazze che hanno ricevuto la passione per gli Oasis già nel biberon.

Basta dare un’occhiata ai social per capire che non è solo nostalgia. Su TikTok e X si moltiplicano i post di chi andrà a vedere il concerto con il padre, o di chi avrebbe voluto ma non potrà mai, o ancora i commenti di chi si lamenta perché troppi ragazzini hanno preso i biglietti lasciando a casa i fan della prima ora.

Dietro questa tensione, si nasconde la prova di quanto sia viva questa community: non è una fanbase, è un’eredità emotiva che passa di mano in mano. Quando un brand riesce a fare questo, può davvero aspirare a live forever.

Rifugiarsi nella nostalgia

Il passaggio intergenerazionale della musica degli Oasis ha sicuramente contribuito a riempire gli stadi di questa reunion, ma c’è un insight più profondo che spiega perché orde di giovani e giovanissimi sono disposte a spendere centinaia di sterline per vedere due cinquantenni cantare le stesse canzoni degli anni Novanta: si chiama nostalgia

Riavvolgiamo per un momento il nastro. L’idea della Fine della Storia, con la promessa di un benessere generalizzato, è crollata molto più velocemente del Muro di Berlino: la globalizzazione non solo non ha appianato le diseguaglianze sociali, ma le ha inasprite. Se a questo aggiungiamo le guerre e la crisi climatica, il quadro non appare roseo. Ed è esattamente in questo contesto che sorge la nostalgia per un’epoca che molti non hanno nemmeno vissuto: si tratta di una fuga dalla realtà che ci spaventa per tornare in un immaginario percepito come più luminoso e rassicurante, fosse anche solo per due ore di un concerto.

La reunion degli Oasis si inserisce così in un trend su cui già da tempo fanno leva i brand e lo alimenta. Insieme agli Oasis è, infatti, tornato di moda lo sportswear anni Novanta: se non avete nessun amico con le Adidas Gazelle ai piedi, allora quell’amico siete voi. Volete qualche numero? Tra maggio e giugno le vendite di giacche imbottite sono aumentate del 343%, mentre quelle di impermeabili del 115%. Insomma, in questi tempi così incerti, un pezzo di passato ben confezionato vale più di mille promesse sul futuro.

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