C’è un intero spettro di emozioni che cerca spazi di espressione. Rabbia, malinconia, ansia, gioia: sempre più spesso si riversano in digitale, dove trovano forme inedite. Davide Sisto, filosofo torinese e tra i massimi studiosi del rapporto tra tecnologia e morte, lo racconta bene nei suoi libri e nei suoi interventi: il web è diventato un nuovo cimitero, ma anche un laboratorio emozionale, in cui la memoria e i sentimenti si trasformano in dati, post, messaggi. Un luogo dove si piange, si ricorda, si ride amaro, ma anche dove si sperimenta un linguaggio collettivo per dire l’indicibile.
Perché oggi non viviamo più solo offline. Quando perdiamo qualcuno, o quando siamo sommersi da emozioni forti, non ci affidiamo soltanto a riti tradizionali o a reti di prossimità. Apriamo un’app di meditazione, scriviamo un post, ci sfoghiamo con un chatbot. Le emozioni diventano interfacce.
Chatbot, deadbot e l’illusione di parlare con i morti
Il mercato della salute mentale digitale vale miliardi e include oltre 10.000 app: dai grandi classici come Headspace per la meditazione, a Talkspace e Unobravo che mettono in contatto con terapeuti umani, fino a Woebot o Wysa, chatbot capaci di offrire conforto immediato. Non sostituiscono uno psicologo, ma creano alleanze emotive che per molti sono state fondamentali, soprattutto in contesti di crisi.
Poi ci sono i deadbot: avatar digitali che permettono di “parlare” con i defunti. Piattaforme come HereAfter o Replika raccolgono testi, audio e immagini lasciati da una persona e li trasformano in un alter ego digitale. Dopo la morte, familiari e amici possono interagire con lui o lei. Già nel 2021 il San Francisco Chronicle raccontava la storia di un uomo che aveva usato Project December, basato su GPT-3, per ricreare la voce digitale della sua fidanzata morta: un’esperienza che lo aveva calmato in un momento di depressione.
È un terreno fragile: chi non ha lasciato consenso, può davvero essere riportato in vita digitale? E cosa dice di noi il bisogno di colmare quel vuoto con una replica artificiale? Domande etiche che, come sottolinea Sisto, ci costringono a ripensare non solo la morte, ma anche il nostro modo di amare e ricordare.
Emozioni nei videogiochi
Non è solo l’AI a diventare contenitore di emozioni. Anche i videogiochi hanno aperto un varco che fino a pochi anni fa sembrava impensabile: trasformare lo schermo non in un luogo di distrazione, ma in un terreno intimo per elaborare sentimenti complessi. Titoli come Spiritfarer, I Am Dead o Season: A Letter to the Future non puntano a farci vincere, accumulare punti o sconfiggere nemici: ci invitano piuttosto a dire addio, a fare i conti con la memoria, ad accettare la fine di un percorso.
Sono esperienze che somigliano più a romanzi interattivi o a film d’autore che a giochi tradizionali. Ci chiedono di fermarci, ascoltare, riflettere. In Spiritfarer, ad esempio, accompagni anime nell’aldilà, imparando che il vero obiettivo non è correre verso la vittoria ma vivere il viaggio insieme, con dolcezza e malinconia. In Season, invece, pedali attraverso paesaggi sospesi nel tempo per documentare ricordi destinati a svanire. Non c’è adrenalina: c’è una calma meditativa, un invito a custodire.
Questi giochi offrono ai giocatori un ambiente sicuro, “step-removed”, cioè un passo distaccato dalla vita reale, in cui confrontarsi con la perdita senza esserne travolti. Ti permettono di esplorare il dolore a piccoli sorsi, scegliendo cosa ricordare, cosa lasciare andare, cosa trasformare in racconto. È una grammatica nuova del videogioco: non più solo intrattenimento, ma uno spazio emotivo, poetico, che rende accessibile il lutto in modo diverso, meno tabù e più condivisibile.
Alcuni progetti VR poi si spingono ancora oltre: Meeting You, documentario sudcoreano, ha mostrato l’incontro virtuale tra una madre e la figlia morta di tumore. Virtual Awakening a Londra ha simulato l’esperienza stessa della morte, per aiutare a riconsiderare il senso della vita.
La logistica del lutto
E poi c’è la parte più dura, ma meno raccontata: la burocrazia. In media servono 12,5 mesi per chiudere tutte le pratiche dopo un decesso, con costi che superano i 17.000 dollari negli Stati Uniti. Empathy AI nasce proprio qui: un’app che combina supporto emotivo e pratico, checklist, contatti con esperti, persino un algoritmo che scrive necrologi. Lantern offre guide passo passo, mentre su TikTok i death doula spiegano come affrontare questi compiti senza sentirsi soli.
Figure professionali che fino a pochi anni fa erano quasi sconosciute, oggi hanno trovato nei social una cassa di risonanza potente. Con video brevi e diretti raccontano come gestire le pratiche burocratiche, ma anche come stare accanto a chi muore o a chi resta. Sono guide emotive e pratiche, capaci di unire consigli concreti – cosa dire a un’agenzia funebre, come compilare i moduli per chiudere un conto corrente – a riflessioni sulla fragilità e sul valore del tempo.
Questa esposizione online ha normalizzato un ruolo che storicamente era relegato a cerchie ristrette, spesso invisibili. Oggi invece un ventenne può incappare in un reel che parla apertamente di morte, scoprendo che esistono professionisti pronti a sostenere le famiglie non solo nel dolore ma anche nel caos organizzativo che segue un lutto. È un modo per abbattere tabù e riportare la morte dentro il discorso pubblico, non più nascosta dietro porte chiuse ma affrontata come parte inevitabile della vita.
In questo senso, la combinazione di tecnologia e “tocco umano” diventa fondamentale: checklist digitali, app che centralizzano documenti e conti, chat con esperti e video empatici sui social creano un ecosistema che aiuta le persone a non sentirsi travolte. Non sostituiscono la comunità, ma provano a ricostruirla in una forma nuova: fatta di piattaforme, tutorial, interazioni mediate, ma pur sempre legata a quel bisogno antichissimo di condividere il peso del lutto per renderlo più sopportabile.

Perché proprio adesso
La parola polycrisis è diventata uno dei termini più usati per descrivere la nostra epoca. Significa, letteralmente, crisi multiple che non si sommano semplicemente ma si intrecciano, alimentandosi a vicenda. Guerre, pandemia, cambiamento climatico, precarietà economica, instabilità politica: non arrivano mai da sole, ma insieme, in un effetto domino che rende difficile distinguere un problema dall’altro. Non viviamo una crisi alla volta, ma un’unica grande rete di crisi che ci travolge. Ecco perché ci sentiamo costantemente sotto pressione: non è solo ansia individuale, è il risultato di un sistema che non smette mai di oscillare.
La polycrisis ci bombarda di lutti collettivi – pensiamo anche solo a Palestina e Ucraina – trasmessi in diretta sui feed. La Gen Z, già affascinata da horror e spiritualità, trova naturale abitare questi spazi digitali come camere del dolore condivise. La tecnologia non sostituisce l’abbraccio umano, ma diventa un’infrastruttura emotiva: un luogo dove possiamo essere tristi insieme, dove il lutto diventa linguaggio e comunità.
Il punto non è chiedere all’AI di guarirci. È piuttosto riconoscere che le emozioni hanno trovato un nuovo terreno per crescere, contorcersi e trasformarsi.



 
								
			
 
							
 
							
