Nell’esplorazione dei futuri possibili è certo che l’immaginazione gioca un ruolo chiave, ma affinché questa esplorazione non si riveli un puro esercizio di fantasia, la soluzione è adottare un metodo strutturato. Una delle prime e fondamentali fasi è la scansione della situazione odierna cercando dati, trend e insight relativi al tema che vogliamo analizzare.
Se siete qui su BUNS, gli insight sapete dove trovarli 😉 Per i dati, un grande aiuto in questo senso arriva dai report, utili a dirci come stanno le cose e come la pensano le persone numeri alla mano, così da evitare di restare influenzati dalle nostre opinioni personali, dalla nostra bolla e dai bias più comuni. Possiamo usarli per definire al meglio quello che i romantici chiamavano lo zeitgeist, lo “spirito del tempo” ovvero la “coscienza collettiva” della nostra epoca, la situazione attuale da cui partiamo per delineare i nostri scenari futuri.
Oggi descriviamo comunemente il presente come non lineare, contraddittorio, caratterizzato da tensioni ed elementi di crisi, dall’incertezza, e dall’estrema velocità, complessità e globalità con cui avviene il cambiamento. Vediamo se e come questo viene confermato dai report.
Ci concentreremo sull’Italia prendendo in esame il Report Flair 2025 di IPSOS e il Rapporto Italia di Eurispes, due dei più significativi.
L’epoca del Futuro Fuggente secondo IPSOS
Così titola l’IPSOS il suo rapporto annuale Flair Italia 2025 alla quindicesima edizione, in cui analizza la società italiana con i suoi valori, atteggiamenti e opinioni. Ipsos – società multinazionale di ricerche di mercato e consulenza di origine francese – opera a livello mondiale e dunque anche nel nostro paese.
Enzo Risso – Direttore Scientifico di Ipsos Public Affairs – afferma nella prefazione:
«Il “Futuro Fuggente” è quella sensazione che oscilla tra il chiaro e l’ombroso, tra il desiderio e la realtà; che fa ondeggiare le persone tra la spinta verso il nuovo e il richiamo del passato, tra speranza e paura, tra desiderio di cambiamento e resistenza ad esso.»
L’Italia viene descritta come più vicina a lasciarsi alle spalle la “Sindrome di Sisifo” del suo recente passato, in cui l’uscita dalle crisi sembrava impossibile per il loro continuo susseguirsi. Resta però combattuta tra sentimenti positivi e negativi e in lotta con ostacoli che ne rendono il futuro incerto e fragile. Con il rischio che nella lotta tra passato e futuro prevalga un presente onnivoro e frammentato.
Da un lato crescono le preoccupazioni: l’orrore della guerra e di una società sempre più violenta specie contro le donne; le disuguaglianze sociali che bloccano l’ascensore sociale e generano rabbia. Molti credono che i propri figli vivranno peggio di loro. Il disagio sociale colpisce soprattutto giovani e ceti popolari, mentre l’inclusione diventa terreno di scontro anziché di progresso. Il lavoro, già precario e senza prospettive, ora deve confrontarsi con la sfida dell’intelligenza artificiale e delle nuove tecnologie. I cittadini si sentono gravati dalla responsabilità della lotta al cambiamento climatico mentre percepiscono che aziende e veri responsabili dovrebbero fare di più. La globalizzazione ha mostrato i suoi limiti, alimentando una nostalgia per il conosciuto, per un passato a volte idealizzato.
Abbiamo già descritto questa idealizzazione del passato qui su BUNS con fenomeni come la moglie all’antica (tradewife), e con il boom del vintage che rende questo passato vicino, accogliente, quotidiano: la musica dei vinili da sentire a casa o nei bar di quartiere rinati come listening bar; la fotografia con il recupero dell’analogico o con nuovi prodotti che ne imitano la funzionalità (no schermi) e la resa estetica delle pellicole del passato; i mezzi di trasporto di un tempo riproposti elettrificati (come il mitico Ciao o la R5) o mai accantonati dagli appassionati (vedi Panda a Pandino).
Volendo distinguere emerge però che se il fenomeno è comune, ogni generazione ha una motivazione diversa per guardare al passato: i Boomers vorrebbero conservare e celebrare un’epoca giudicata irripetibile, la Gen X, quella “ponte”, cerca ricordi d’infanzia da rivivere (vedi kidult), mentre la Gen Z attinge ad elementi di epoche di cui non ha ricordi come ‘80-’90 per “remixarli” in una nuova estetica e costruirsi una sua identità, per trovare tracce di stabilità da portare in un’epoca frammentata e incerta come l’attuale.
Tornando al report, la prefazione poi continua sottolineando che, mentre l’individualismo e il neo-narcisismo dominano, emerge il bisogno opposto: creare rapporti, sentirsi parte, ricevere applausi. Il desiderio di riconoscimento si fonde con la voglia di momenti di gioia collettiva e di guardare al domani con speranza e leggerezza, anche se questa speranza viene percepita come fragile e prende forma così il “Futuro Fuggente”.
Nelle successive quasi 100 pagine di descrizione di fenomeni e dati, incontriamo ad esempio la frammentazione sociale (il 78% del ceto medio afferma di sentirsi felice, contro il 77% di infelici nei ceti popolari e il 40% dei giovani che si sente escluso dalla società) e il backlash culturale (per il 31% degli uomini “si continua a parlare di discriminazione contro le donne, ma ormai sono gli uomini ad essere discriminati”; il 28% degli italiani pensa che negli ultimi anni si siano fatte troppe concessioni a omosessuali e lesbiche).
O ancora il reembedding (il 79% afferma che il cibo coltivato o prodotto vicino a dove abita è più buono e sicuro) e alla retrotopia (per il 69% del Paese “Un tempo il mondo era un posto molto migliore”).
Così come il Goblin mode (il 28% dei giovani non ama andare a ballare, il 9% è disinteressato allo shopping, il 28% ama stare a casa sua e occuparsi della realtà domestica) o la resistenza digitale (il 12% degli italiani – 8% tra i giovani – afferma che preferisce stare alla larga dai social). Forse che questo ‘goblin mode’ non è solo pigrizia ma racconta un bisogno di protezione, di costruire un nido contro un mondo percepito come ostile, di una Generazione Z che trova conforto sviluppando legami affettivi con oggetti inanimati come i peluche e confidandosi con l’AI.

Bloccati dal presentismo, minacciati dalle crisi per EURISPES
Anche al centro della 37esima edizione del Rapporto Italia 2025 di Eurispes – ente privato italiano – ci sono delle dicotomie, sei per l’esattezza, poichè per sua scelta metodologica propone una lettura duale della realtà.
Si conferma molto interessante leggere e confrontare le considerazioni generali a firma del Presidente di Eurispes Gian Maria Fara. Se nell’edizione 2023 si parlava di “scelte coraggiose da prendere” in un’Italia post Covid, nel 2024 emerge una “Italia al bivio”, malata di presentismo e bloccata nell’incertezza.
E oggi nel 2025? A quanto pare, non va meglio, anzi la situazione è peggiorata.
«Lo stato di incertezza è arrivato a cogliere ed intaccare negativamente in profondità valori ed elementi essenziali del nostro vivere comune […] ad esempio la nostra idea di pace, come condizione imprescindibile della convivenza tra i popoli e gli Stati»
Le crisi sono profonde: riguardano democrazia, politica, ordine mondiale, idea di progresso, comunità; Fara le illustra, senza sconti, sottolineando che valgono a livello internazionale, ma che in Italia emergono peculiarità che ci portano a “scoprire di essere un Paese imprevidente e invecchiato male”.
Naturalmente il Rapporto non offre soluzioni alle crisi, non è suo compito, ma fornisce con un approccio costruttivo dati utili a comprendere la gravità e la portata dei problemi.
Scopriamo allora che la fiducia nelle Istituzioni è al 36,5%: seppur il 63,6% dei cittadini apprezza il Presidente Mattarella, solo il 25,4% afferma lo stesso apprezzamento per il Parlamento. Ci sentiamo italiani (43,2%), ma non europei (22%) e più di sette italiani su dieci, la maggioranza (72%, erano il 62,9% nel 2011), considerano, nel 2025, una fortuna vivere in Italia. Nonostante questo, la Scuola cala al 64,9% dei consensi, il sistema sanitario nazionale al 54,6% e più della metà degli italiani (55,7%) esprime una valutazione negativa sull’andamento generale dell’economia del nostro Paese.
Di cosa abbiamo paura? Della Terza Guerra Mondiale (46,1%) e di una nuova pandemia (45%), ma soprattutto il 67,6% teme una nuova crisi economica globale e sette su dieci (69,5%) temono gli eventi climatici estremi.
Gli italiani si dicono a favore dei matrimoni per le persone dello stesso sesso (66,8%), al 42% per la legalizzazione delle droghe leggere e al 68,3% contro la caccia. Scopriamo anche che molti giovani vanno all’estero ad aprire ristoranti, che la maggioranza degli italiani (circa il 58%) dichiara di non aver mai utilizzato l’Intelligenza Artificiale mentre solo il 7,9% dice di non usare i social.
Tra sondaggi, schede e approfondimenti su temi anche quotidiani, il “sentiment” non cambia, il venir meno della fiducia nel futuro spinge a delle grandi rinunce: formare una famiglia, avere figli, investire risorse nella propria crescita lavorativa, fino allo stesso vivere in Italia.
Duro, quanto vivido e accorato, è allora l’appello conclusivo di Fara: occorre “recuperare il pensiero essenziale” così come proposto da Albert Einstein nel 1946: un pensiero che va oltre l’effimero, il personale, la contrapposizione, per abbracciare e affrontare le crisi profonde della società e costruire il futuro.
Come alimentare la speranza? Il ruolo dell’ottimismo urgente
Dopo aver letto questi report, potreste rientrare tra quei due italiani su tre che si dicono pessimisti sul proprio futuro, o peggio potreste convincervi che tutto sia già predestinato e che non c’è nulla che possiate fare per cambiare le cose. Per questo, mi sembra necessario darvi anche una possibile via d’uscita. Partiamo ponendoci la domanda chiave:
“Come possiamo affrontare questi problemi senza sentirci schiacciati o impotenti?”
Personalmente, ho trovato una risposta nell’ottimismo urgente, reso famoso da Jane McGonigal game designer e futurista. Questo può essere definito come una convinzione forte e positiva che si possa fare la differenza, unita all’immediata volontà di agire. È un mix di ottimismo – credere che un problema possa essere risolto – e urgenza – non rimandare, ma passare subito all’azione.
L’urgent optimism parte da una visione positiva come quella che si ottiene esplorando i futuri preferibili, che magari non saranno i migliori in assoluto, ma che hanno la caratteristica di essere possibili.
Una volta individuato il problema da affrontare, possiamo ricorrere al backcasting (l’opposto del forecasting, cioè partire dal futuro e torniamo indietro fino a oggi) e fare tre cose:
- identificare possibili alleati da coinvolgere: persone, movimenti e iniziative che vanno nella giusta direzione
- individuare quelli che ci possono ostacolare, da convertire o battere
- immaginare cose che oggi non esistono come tecnologie, organizzazioni, leggi, politiche o movimenti, che dovrebbero esistere per rendere il nostro futuro preferibile più probabile
Per essere motivati e coinvolti, visto che il nostro cervello non è allenato ad immaginarlo, ci serve creare del nostro futuro preferibile un’esperienza più vivida possibile. Cerchiamo di ottenerla attraverso le tecniche e i tools a disposizione dei Futures Studies, come la creazione di scenari (scritti o recitati o anche resi con immagini e video). A questi possiamo affiancare veri e propri artefatti tridimensionali, prototipi di oggetti che ancora non esistono. Si è dimostrato efficace anche progettare un’esperienza di gioco collettivo – in cui McGonigal è maestra – o perché no creando un “giornale” proveniente dal futuro in cui leggere titoli e notizie futuri sui temi a noi cari. Insomma, i modi sono molteplici e vari.
A questo punto, non resta che creare e condividere una roadmap operativa verso il nostro futuro preferibile, identificando anche azioni immediate e piccole oltre a quelle future o complesse. Compiere una piccola azione, o prendere l’impegno di farlo, può contribuire a rendere più probabile il futuro che desideri. Un impegno può anche essere testimoniato, firmato e condiviso sia per aiutarti a mantenere fede che per diffondere l’esempio, così che diventi l’impegno di un team, di un gruppo, di un movimento di persone.
Tutto questo può permetterti di cambiare la narrativa dal “Siamo condannati” al “È difficile ma possiamo farcela, e dobbiamo iniziare subito”.

Quando serve mediare il conflitto, ecco gli scenari trasformativi
E se le convinzioni delle persone sono contrapposte e le loro visioni in conflitto? Come prendere decisioni o intraprendere cambiamenti quando più forze si scontrano in uno scenario complesso?
Una soluzione, che si è dimostrata in molti (non tutti) casi efficace, viene dagli “Scenari trasformativi” di Adam Kahane il cui scopo è creare visioni condivise del futuro. Questa metodologia è stata messa da lui a punto nei molti anni di esperienza sul campo e con casi a volte davvero difficili. Famoso quello del Mont Fleur Scenario Exercise tenutosi nel 1991-92 in Sudafrica e il cui eccezionale risultato fu quello di far convergere 22 tra leader, manager, attivisti e studiosi, spesso in lotta tra loro, ad uno scenario condiviso, possibile e duraturo che portasse oltre l’apartheid e verso la democrazia.
Dopo aver vagliato tutti i possibili, restarono 4 scenari in gioco e furono denominati: Ostrich, Lame Duck, Icarus e Flight of the Flamingos. Ma fu quest’ultimo a mettere tutti d’accordo: “la storia di una società che ha posto le basi per svilupparsi gradualmente mantenendo l’unità sociale. Le politiche del governo sono sostenibili e la crescita è inclusiva e democratica”. Sappiamo poi com’è andata, fortunatamente.
Tornando a questa metodologia nata per gestire conflitti e “facilitare” una mediazione, è importante sapere come ci insegna Kahane che affinché possano funzionare occorrono tre elementi e tre componenti:
A. Le persone coinvolte percepiscono la situazione attuale (o in divenire) come inaccettabile, instabile o insostenibile. Non sono disposte ad adattarsi o a fuggire, benché si sentano spaventate e confuse.
B. Occorre una coalizione. Queste persone, anche se lo vorrebbero, non sono in grado di trasformare da sole la loro situazione così ampia e complessa.
C. Non possono trasformare direttamente la loro situazione, perché spesso non concordano tra loro nemmeno sul problema. Serve invece procedere indirettamente attraverso la costruzione di comprensioni, relazioni e intenzioni condivise.
I. Prima componente: un gruppo di lavoro rappresentativo di tutto il sistema, formato da attori influenti, autorevoli e realmente interessati.
II. Seconda: un contenitore sicuro (fisicamente ed emotivamente), cioè un luogo d’incontro che offra riservatezza e protezione, ma sia anche stimolante e favorisca un clima cordiale
III. Terza: un processo rigoroso.
In merito alla terza componente, lo stesso Kahane ha codificato gli scenari trasformativi in 5 FASI – ampiamente descritte nel suo libro “Transformative Scenario Planning: Working Together to Change the Future” (qui nell’edizione italiana) – che portano dall’interno verso l’esterno e che facilitano le persone a comprendere la situazione problematica e trasformarla, trasformando in primis loro stessi e le loro relazioni.
Si va così creando una coalizione di attori diversi, tutti fortemente coinvolti, che acquistano consapevolezza di cosa devono fare insieme, partendo da storie su ciò che potrebbe accadere in grado di ispirare sé e gli altri.
Gli scenari trasformativi sono dunque una sorta di tecnologia sociale applicabile, anche se non sempre con esito garantito, anche a numerose situazioni nelle piccole comunità quando sono presenti le condizioni descritte sopra.
Conclusione: quando si incontrano ottimismo e trasformazione
Se l’ottimismo urgente fornisce l’energia emotiva e la spinta all’azione, gli scenari trasformativi permettono di ottenere la mappa condivisa per capire dove andare e come arrivarci.
Sia chiaro: per agire non serve aspettare il piano perfetto che potrebbe non arrivare mai, il consiglio è iniziare comunque, perché le piccole vittorie immediate hanno una grande importanza nell’alimentare la fiducia delle persone.
Non dovete dimenticare che il futuro non si prevede, si costruisce.
Grazie dell’attenzione.
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APPENDICE: numeri e dati non mancano, ecco dove trovarne
Qui elencate ci sono ulteriori risorse dove trovare dati e report sull’Italia ma non solo:
- L’ISTAT – l’Istituto Nazionale di Statistica è la fonte principale su trend demografici ed economici come il famoso PIL. A giugno è stata aggiornata la sezione Noi Italia – 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo, e altra novità: da luglio hanno reso disponibile nella search un chatbot AI, quindi vi basta chiedere e risponderà lui cercando tra i tanti dati disponibili.
- Per i dati ufficiali su base Europea, c’è Eurostat
- Ricerche, analisi e dati arrivano anche dall’Ocse, che gli altri chiamano OECD
- Se cerchiamo dati su povertà/ricchezza e disuguaglianze, suggerisco: il Report Caritas sulla povertà in Italia, il Report di Oxfam sulla disuguaglianza. (A proposito, avete mai sentito parlare dell’Indice di Gini?)
- Molti temi legati al sociale, con un’attenzione principale a informazione e trasparenza, arrivano da Openpolis.it
- Sull’andamento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals – SDGs) adottati con l’Agenda 2030 c’è il Rapporto SDGs 2025 di ISTAT, mentre ad ottobre uscirà quello di ASviS – Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile. Come potete immaginare, non ci danno buone notizie.
- Per i temi legati ai cambiamenti climatici, si fa riferimento all’IPCC la cui ultima pubblicazione è il suo Sesto Rapporto di Valutazione sui Cambiamenti Climatici (AR6) del 2023, qui con un focus sull’Italia.
- Sui temi del lavoro, sempre interessante e completo The future of Jobs Report del WEF – World Economic Forum che produce anche il Global Risk Report.
- Sui temi della geopolitica suggerisco il Dossier ISPI 2025, che quest’anno si intitola “Time to Deliver: il mondo alla prova dei fatti”.
- Infine, se volete approcciare gli open data, l’Agenzia per l’Italia Digitale cura Dati.Gov.it


