Le campagne pubblicitarie stanno vivendo una trasformazione radicale. Accanto alle classiche pubblicità “mordi e fuggi”, sempre più brand sperimentano con brevi serie, documentari e cortometraggi.
Questa tendenza arriva in particolare dal mondo della moda, che da sempre intreccia creatività visiva e narrazione. Ed è proprio questa commistione a rivelarsi oggi una risposta alle nuove richieste dei consumatori: meno prodotto-centrismo, più autenticità, valori e storie in cui riconoscersi.
Nonostante la soglia dell’attenzione si sia abbassata e i nostri schermi siano invasi da migliaia di messaggi promozionali, le persone reagiscono con entusiasmo quando i brand propongono contenuti capaci di coinvolgere emotivamente, al di là delle caratteristiche del prodotto.
L’esempio Gucci
Un caso emblematico di questa metamorfosi è il cortometraggio La Tigre, presentato da Gucci durante la Milano Fashion Week. Diretto da Spike Jonze e Halina Reijn, racconta la storia di Barbara Gucci, tra famiglia, responsabilità e imprevisti.
Il cortometraggio non si limita a mostrare abiti o accessori, ma costruisce archetipi riconoscibili che incarnano l’identità visiva e comunicativa del marchio: la Cattiva, la Sciura, il Principino, la Miss Aperitivo e molti altri. Personaggi che riflettono stili di vita, aspirazioni e valori.
Ed è proprio qui la chiave: le nuove generazioni, Z e Alpha, abituate a vivere identità digitali fluide e multiple, cercano contenuti che permettano loro di riconoscersi, ispirarsi e aderire a comunità valoriali.
Contenuti digitali e identità personale
Il bisogno di appartenenza — il cosiddetto need to belong — è primario quanto la sete o la fame. I social media amplificano questo impulso perché permettono di rendere visibili interessi, valori e legami sociali davanti a un pubblico potenzialmente illimitato.
L’acquisto di un marchio, che a prima vista può sembrare un gesto banale, in realtà è carico di significati psicologici e sociali. Teorie come il dissociative desire e la brand prominence spiegano come le persone utilizzino i brand sia per prendere le distanze da gruppi sociali percepiti come negativi, sia per rendere più o meno evidente la propria identità attraverso la visibilità del marchio.
A seconda del contesto, infatti, oscilliamo tra il desiderio di affiliarsi a una comunità e quello di differenziarci. È in questo spazio intermedio che prendono forma fanbase e community, che ruotano attorno a brand o figure pubbliche.
I marchi diventano così molto più che semplici fornitori di prodotti: sono luoghi simbolici e identitari, capaci di offrire appartenenza, riconoscimento e narrazione personale.
Il nuovo centro dell’intrattenimento
Le statistiche sul tempo passato online parlano chiaro: gran parte delle nostre ore libere è assorbita dallo scrolling, dalle storie e dai video brevi.
I social, anche grazie a costi di produzione più bassi, stanno sostituendo la TV come hub principale per intrattenimento e informazione. Contemporaneamente, il pubblico – influenzato dallo streaming e dai podcast — si è abituato a contenuti accessibili ovunque e in qualsiasi momento. Non serve più andare al cinema per vivere storie di qualità: basta lo smartphone.
È iniziata l’era del purpose marketing
Le pubblicità da 15 secondi non bastano. Per conquistare attenzione e fiducia servono racconti capaci di trasmettere esperienze umane, valori condivisi e una visione culturale.
Per questo le campagne più innovative prendono in prestito il linguaggio del cinema: non mettono in primo piano le caratteristiche di un prodotto, ma il suo ruolo nella vita delle persone e nella società.
I brand più lungimiranti coinvolgono registi e storyteller professionisti, capaci di costruire atmosfere, tensioni e personaggi memorabili. Così, la pubblicità diventa racconto culturale.
Un esempio? Lego con Tom Holland e la campagna Never Stop Playing, in cui il gioco diventa metafora di creatività e possibilità di ricostruire il mondo. Qui il prodotto scompare sullo sfondo: ciò che rimane è un messaggio universale.
La pubblicità che resta impressa
Non tutte le campagne lasciano il segno. A essere ricordate sono soprattutto quelle creative, dinamiche, coerenti con l’identità del brand e capaci di integrare uno storytelling forte.
Nel 2021, Polestar ha lanciato una campagna social in collaborazione con Forbes, coinvolgendo giovani imprenditori Under 30: a bordo delle auto, raccontavano le loro storie e la loro visione della sostenibilità.
Anche Rolex ha scelto questa strada con la serie The Rolex Family: episodi da dieci minuti in cui atleti e personaggi sportivi raccontano sfide, sacrifici e successi. Nessuno indossa un orologio, ma il messaggio è chiaro: Rolex diventa simbolo di realizzazione personale.
Indimenticabile è anche il cortometraggio di Prada diretto dal regista Wes Anderson presentato al Festival Internazionale del Film di Roma nel 2013. In sette minuti di Castello Cavalcanti, gli spettatori vengono immersi in una visione autentica del brand, esprime valori e contribuisce alla creazione di un vero e proprio stile di vita, quello di chi sceglie Prada.
Esprimere dei valori invece che dare solo risposte a dei bisogni materiali può contribuire alla creazione e all’affermazione di veri e propri stili di vita. Prada vuole concentrarsi sulla sua origine, ci restituisce una memoria storica che ci fa sorridere e che forse ci lascia anche un po’ di malinconia: è una casa di moda italiana, e ne va fiera.
L’effetto Generazione Z
Per capire perché i brand stanno investendo sempre più in contenuti narrativi, bisogna guardare alle nuove generazioni.
La Generazione Z, molto più di quelle precedenti, mette al centro questioni sociali e ambientali, e riflette i propri valori nelle scelte quotidiane. Acquisti, tempo libero, lavoro: l’84% dei consumatori globali vuole che un brand condivida i propri valori e li traduca in azioni concrete.
Questa generazione cresce in un mondo segnato da sfide senza precedenti, per questo è esplicita e opinata. Pretende che i brand prendano posizione, comunichino chiaramente il loro impegno e diventino parte attiva della comunità.
Ma questa nuova era porta con sé anche dei possibili rischi.
Un aspetto che non possiamo ignorare è il rischio di polarizzazione. Lo vediamo chiaramente nelle reazioni a campagne recenti: il caso di Dolce & Gabbana, criticata per i video teaser della campagna in Cina che mostravano, secondo molti utenti, stereotipi culturali offensivi tanto da annullare uno show di elevata importanza mediatica e quello di Balenciaga, accusata di sessualizzare bambini nella campagna “Holiday Gifting”.
Oggi il pubblico non lascia più spazio all’indifferenza: ogni gesto di un brand – o la sua mancanza – viene costantemente giudicato, e raramente in modo neutro. Tutto diventa o “bene” o “male”, e ogni scelta comunicativa o silenzio viene interpretata come una presa di posizione chiara.
Questo ci dice molto su quanto Generazione Z e Alpha si aspettino coerenza e coraggio dai marchi: se i brand non comunicano chiaramente i propri valori, saranno i consumatori stessi a definirli al loro posto, spesso attraverso critiche pubbliche e virali sui social.
La trasformazione delle campagne social non è solo estetica o linguistica: riflette un cambiamento profondo nelle aspettative del pubblico.
Oggi non cerchiamo più pubblicità che mostrino un prodotto, ma storie che ci permettano di capire chi siamo, con chi vogliamo identificarci e quali valori vogliamo sostenere.
I brand che sapranno abbracciare questa evoluzione, trovando il giusto equilibrio tra narrazione ed engagement sociale, non solo venderanno di più: diventeranno parte della cultura.





